fragile sui passi
e sospesa,
l’anziana sorella di Opalka
si avvicina a quei numeri,
alla loro bianca infinità.
la lasciano in vicinanze
che nessuno attraversa
padrona della sua preghiera,
qui, nel canuto sfinimento
dei simboli,
nel transito concluso
dell’opera e della vita
coetanee
in cui ritrova il fratello,
la sua anima
orientata nel rigore.
toccata di realtà si aggira
ascoltando il luogo,
l’opera che impallidisce.
si muove nella traccia esibita
avverte un momento preciso
la minuziosa presenza:
questo è un mausoleo,
qui c’è lui.
guarda piano cauta,
si innesta nel ritmo dei quadri
ne scova l’indirizzo,
recupera i gesti
diramati nelle cifre
autrici del suo nome.
lei lo vive
ed egli c’è ancora,
campo di energia
senso umano.
qui alloggia il loro ritrovarsi
si alita il contatto.
incerta e malandata
viene percorsa dal messaggio,
guarda, non guarda,
apre la bocca per dire,
dire il nulla,
il bianco a sua volta nulla
pianto di silenzio.
è attonita debole
spalancata figura dell’ascolto,
timorosa di trovare
una sé stessa non sua,
calibrata da fuori.
l’incontro si stringe
la stanza diviene reciproca.
la voce di Roman cala
tra le quantità esangui
avvolgendola,
numerandola.
lei lo prende, abbraccia
l’uomo che si ricovera
tra i muri,
il suo fuoco e risultato.
e finisce.
si scosta dal legame
si volta,
mi passa un cenno intenso
con occhi forse suoi
forse duplici,
e debolmente
si allontana.