il lettore indagava le pagine.
la presenza tattile dei segni marcava la carta di perseguibili conclusioni. ogni simbolo era sigillo e caso, trovava una dicitura corporea.
il lettore non sapeva se stesse leggendo l’opera o propriamente il libro, gli equilibri, gli spazi, o se leggeva il suo leggere; se fosse navigante di un contenuto impalpabile o di un materiale paese d’inchiostro, di positive iniziazioni.
lui non era l’usuale destinatario avvezzo agli episodi e gli sbrogli del racconto, né si serviva di modelli per ricavare un progetto della realtà: cercava invece l’identità del suono col termine vergato, il confine tangibile in cui la cosa si enuncia.
le parole erano sistemazione e signoraggio della materia, sostegno del proprio prodursi. il lettore non sapeva se considerarle calligrafiche apparenze di sé o richiami, comandi di un’idea; se ritenerle versioni di un ordine o edificazioni del significato.
studiandole nel profondo, le coglieva schivarsi dalla propria forma, come specchianti sibille di un’eloquenza, guardiane di verbi scarichi. la parola, grafia di una voragine, non si diceva.
così, nel lungo tempo allo scrittoio, il lettore sorvolava su codici e intervalli di smalto vivendo euforiche ore di proprietà, gli occhi imbevuti di formule e asserzioni tipografiche. in quella dilatata scansione regrediva a un seme sfuggente.
ogni giorno usava perdersi nella pittografia dei caratteri, nel loro perenne fondo. li seguiva negli steli e le pieghe campeggianti di china, artigliandone il limite, la soglia.
sempre più si ammaliava, si assorbiva nelle linee, divenendo medesimo tempio sacro. adorava la loro presenza, l’espressione inverata nei profili.
finì per farsi scrittura, l’esperienza di un segno.
revisione di Erica Bisetto