il ragionamento sottile ora è maniera lenta, indugio, ritardo, macigno di tempo, cavillo inservibile. l’esperienza ha pulsanti di verità e di effetto, è coltivazione del raccolto.
la ragione diventa vecchia, il concorso malfermo innova.
impiegato il dialogo con la realtà, la parola divenne tassellazione residua, edificio perpetuo.
ogni nodo risplendeva di ordine, di un collegio premesso, ripetendo la propria angolarità. binari conseguenti l’affermavano, nulla si acuiva, nulla torceva l’impero del valore.
luci oblique chiudono la fila delle case in una sagoma merlata e serena. l’acqua è un metallo atono in cui si muove la forma. barche la solcano figurando la quiete. io sono il tempo.
- raccontami cosa hai fatto.
- ho pensato.
- e oggi cosa hai fatto?
- oggi ho pensato.
- hai fatto qualcosa di recente?
- ho pensato.
lo abbandonò. scelse persone
che avevano fatto che facevano
cose fuori dalla testa
cose con un abito
e un corpo spavaldo.
il fotografo la riprende
registra i volti il gesto
le fogge le piazze da terra e dall’alto
dentro scorci che la gente non usa.
il fotografo sorvola la vita
cattura suggestioni che il pittoresco
non sembra cogliere,
annota diagonali rare ai più
il genuino agirsi che senza di lui
non avrebbe sguardo.
ma quando vive da sé il fotografo
cosa fa di bello, di proprio,
mentre copia il mondo?
la rima è una tigre
che salta dentro
gli anelli al trotto,
belva leziosa
di trastulli innocui.
che la tigre sia invece
la furia e l’artiglio
della tigre.
frequento il verso giacere come inferma verbale lapide. la sfida alla carne sofferta di malattia, sbarazzata dal tempo è l’ultima emulazione dell’essere, il sopravvivere insufficiente di una dedica. leggendo Baudelaire non leggerai quella donna, non la vivrai, c’è solo un momento d’apice che i termini toccano, nessun ritratto ad agirla. rimane la silhouette svanita, testo eterno di un testo, il rimbalzo di niente.
la parola è un tinnio che suona il senso, il puro ornamento vibratile sbiadisce. temi forbiti di autarchiche eleganze disattivano il suo messaggio, ritraggono un campo esaurito di azione. la voce non può condursi, nessuna frase può lasciarci dove siamo.
l’opera indugia tra segni ribelli, in una dissonanza di ordini, di negoziazioni dorsali. non la leggi questa volta, non possiedi proprietà posteriori, non cogli l’apertura che tornerà a significarsi. l’opera è un’anti somma lasciata acerba.
hai mai pensato
che i luoghi non si spostano?
li sposti tu
quando ci arrivi,
fornendo il colore esterno
la forma nuova
che fuori si fornisce.
pensa a quella tela del martirio
qui da secoli
tra gli angoli continuati
di un momento,
la pittura che ti porti tua,
che ha te come differenza.
sfoglio i libri delle fughe e dei rapporti. è l’opera dell’altro autore, la cui prosa lavorata allo smeriglio induce a dissipare il mio tributo: perché agire per farlo di nuovo?
la presenza e la lacuna sono secrezioni di un corpo simile, si eseguono sottostanti, in una filatura di seta che mi raccoglie, che conclude le volontà.
in lui leggo avvenimenti di quarzo, carambole relative, narrazioni implicite. tra le simmetrie sbieche deduco il nostro individuo.
accade ogni volta.
il personaggio dei libri
non legge libri
nella vita cartacea
che noi leggiamo,
l’eroe sta sulla scrittura
alla prima altezza
degli eventi.
lo scritto deve andare avanti
o ritornare avanti per esistere.
le pronunce accompagnano
il brano sopito,
la parola non può essere spazio,
lo spazio deposto nei libri emigra.
- loro hanno il potere,
se non sparo io sparerà un altro,
mi uccideranno e sparerà un altro.
- fatti uccidere e fai sparare un altro.
dai al potere il potere di nulla.